di Gianluca Ferrari
Paul Gauguin, ribelle interprete di una vita arsa in bruciante stato di fuga, alimentato dall’idea del “diritto di fare tutto” nell’ insaziabile ricerca di uno mondo “dallo spirito puro e incontaminato”, che lo porterà a fare dell’ arte sua la sintesi delle principali correnti della pittura francese di fine diciannovesimo secolo. Fallimenti scolastici e giovinezza sregolata non gli impediranno una decorosa vita borghese fino a che il “mal d’arte” non gli attaccherà l’anima trascinandolo nella disgrazia economica ed esistenziale. Gauguin non vende un quadro. Si trasferisce in Bretagna. Abbandona la Francia per Toboga: “vado a Panama per vivere da selvaggio”, comunica alla moglie, che lo aveva già abbandonato.
Torna in Francia , nessuno s’interessa al suo lavoro tranne Theo, fratello di Van Gogh, che gli offre un po’ di franchi in cambio della disponibilità a trasferirsi con Vincent in Bretagna.
Accetta per soldi con l’obiettivo di trasferirsi ai Tropici. Con l’olandese finisce male e in una crisi di follia “il maestro dei girasoli” si taglia un orecchio. Tornato a Parigi racimola qualcosa e parte per Thaiti sbarcando a Papeete dove dipinge, frequenta prostitute e ragazzine; la quattordicenne Pahura gli darà una figlia che morirà dopo un anno, Paul tenta l’avvelenamento, ma ingerisce talmente tanto arsenico che lo vomiterà spontaneamente. Abbandona Thaiti e Phaura (che nel frattempo gli ha dato un secondo figlio) per trasferirsi alle isole Marchesi a Hiva Oa, dove grazie “alla vigoria delle fanciulle locali” recupera energie creative diventando selvaggio naturalizzato Maori. Morirà di sifilide e Ii vescovo della colonia ordinerà la distruzione dei suoi dipinti blasfemi concedendo benedizione e sepoltura, ma senza nome nel cimitero della missione.
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